LE STORIE DELL'OROLONTANO

"L' orolontano": Il luogo delle immagini, del segno, della scrittura, Roma,1984.

...La collana Orololontano con la mappadorata, i maghi, gli eroi, i mostri, lo sfatamento di insite mitologie è universo di rimandi e misteri, sintesi arginata della sfera di produzione artein che sempre richiama   e sempre aggiunge alla propria dilatata "Libreria Circolare". E' fiaba transitoria, Libro figurato nel palmo della mano di Alfonso Filieri, dove la meta sognata è sempre l'ultimo Libro da costruire assieme alla diversità, ad altri artisti editori di se stessi. La materia prima, "l'oro", potrà dai maghi essere trasformata "senza scherzi e a fin di bene" in lucenti fantasie dell'immaginario, itinerari verso spazi incontaminati. La risultante distribuzione editoriale in partenza dalla Tipografia Creativa smantella schemi logici di Casa Editrice, evadendo perversi meccanismi a larga diffusione; eppure i libri artein viaggiano ugualmente senza inganno verso biblioteche, centri culturali, expo, gallerie e musei per propagarsi in maniera tattilo-visiva come ipotesi di opera totale, architetture volanti, Libri che dissolvono se stessi per poi sempre ricostruirsi nei percorsi fantasma d'incantesimi sospesi ad incanto.
Sveva Lanza
, Il luogo delle immagini e della scrittura, 1984
 


L'uccello azzurro, il mago costruttor di voli,  carta riciclata e pastello, 1985


L'UCCELLO AZZURRO. Carta verdeacqua.

Il figlio volava e subito ferito agli occhi esauriva il sogno. Euforia e panico dentro la stella, dalla luce solare al salto del lampo nero. Con sforzo di purezza e calcolo Dedalo invece avanzava e cominciava a segnare la mappa delle parti alte ed era l'inizio delle storie, la spina dorsale del volo, la prima opera, arco tra poesia e progetto, fatta coi resti d'alveare e incollata sulle deboli spalle umane protese a fendere la pelle luminosa del silenzio come pagine di velo di carta sfogliabili ad ogni movimento che segna la salita e rinnova il desiderio.
Era stato per una voglia di mele o un po' di frutta per la cena di una serata carica di vento freddo d'inverno, di quelle che ti lanciano quasi una sfida a uscire allo scoperto, che mi incamminavo in una valle nascosta di Dorsoduro, quasi dormiente, come una bambina agli ultimi capricci serali nell'ora in cui i passi dei camminatori notturni si diradano minuto dopo minuto e diventano rari fino a morire di silenzio ed entravo in uno di quei piccoli negozi di Venezia sagomati dallo sciabordio dell'acqua dove acquistavo due chilogrammi circa di mele deliziose e quindici chilogrammi precisi di carta verdeacqua e azzurrocielo fusi, meno un foglio che serviva per incartare i miei frutti.
Conversazione e patteggiamento. Incuriosito e visibilmente soddisfatto il mercante arrotondava il suo incasso giornaliero con quella vendita inaspettata e sottolineava il fatto che anche a lui quella carta sembrava diversa dalle altre che gli erano capitate ma che tuttavia la mattina seguente avrebbe provveduto a procurarsene altre poich? non poteva trattare i suoi clienti senza il dovuto riguardo.
Le mele erano gustose e la polpa fresca e croccante.
La carta docile al pastello e alla piega, impasto d'acqua e aria morbida e pelosa depositata sul tavolo più vicino alla finestra ed esposta al centro della bianca cintura della luna, aveva formato l'orizzonte stratificato del grande tempio del volo senza porte nè mura di cinta, intorno era la notte e portava il silenzio totale.
Alle prime luci dell'alba venivo svegliato da una ventata gelida che si insinuava nei miei occhi ancora pieni di sonno. Davanti ai vetri della finestra, bianco opalino inverno una figura di uomo uccello disegnava un'ombra che lentamente prendeva la via della luce esterna staccandosi dai fogli del tempio del volo. I vetri tintinnavano violentemente nel momento dell'attraversamento ma restavano intatti e una forma azzurra di volo si dissolveva allontanandosi verso i comignoli di Venezia.
Il Sestriere si stava svegliando e sotto la finestra i primi passi mattutini dividevano il sogno dalla realtà. Sul tempio del volo più tardi rinvenivo tracce di cera, piume, sabbia, mota, legno, legacci e un messaggio. L'uccello azzurro abitava gli spazi lucenti della parte alta del luogo dell'orolontano insieme a quelle creature volanti che in tempi remoti e futuri per desiderio di conoscere gli estremi sfogliabili del tutto viaggiano toccando la pelle luminosa del silenzio.
(Alfonso Filieri, da "Luoghi e misteri dei libri fatti a mano" ed. Ubik-Art, Sacile)
 
LA COLLANA "OROLONTANO" 
1984-1988, a cura di Patrizia Peron
dal catalogo pubblicato in occasione della seconda edizione dell'Arte Faleria Festival, 2009
 
I MAGHI COSTRUTTORI DELL'OROLONTANO

La collana dell’Orolontano riunisce tredici “opere-libro” realizzate tra il 1984 e il 1988 da diversi artisti. Tredici opere dotate di identità autonoma e nello stesso tempo unite da un filo sottile quanto resistente: sono i tasselli di un’unica storia, una fiaba, di cui ciascuna delinea un istante e in cui ciascuna ha un proprio ruolo. In questa fiaba si racconta di “maghicostruttori” e si dà figura ai loro domini immaginari: il volo, la luna, il tempo, lo spazio. I maghi sono in viaggio verso un luogo mitico, il luogo dell’Orolontano, nome che corrisponde a quello della collana, generando così un intelligente meccanismo di autoreferenza, secondo cui il luogo lontano viene a coincidere con l’opera-libro stessa, quasi metafora di un viaggio verso se stessi. Il “magoinventore” di storie, ideatore e curatore della collana è Alfonso Filieri, che da anni si prende cura delle centinaia di opere-libro custodite  presso l’Archivio Internazionale del Libro d’Artista di Faleria (Viterbo). Gli artisti che hanno affidato il proprio atto creativo alla forma libro, che per alcuni di loro è divenuto medium preferenziale se non unico, sono:  Giacomo La Commare, Giovanna Carraro, Ettore Consolazione, Nelio Sonego, Tommaso Cascella, Alfonso Filieri, Sveva Lanza, Bona Cardinali, Fulgor Silvi, Gabriella Trani ed Elisa Montessori. Si tratta di una scelta di particolare valore, in questo più che in altri casi, infatti, la forma dell’opera determina in modo inequivocabile la sua fruizione: difficile fare bella mostra di un’opera-libro nel proprio salotto o esporla in una galleria e quindi introdurla nei tradizionali circuiti del mercato dell’arte. Benché possano funzionare come “piccole mostre portatili” o affascinare e trovare consenso nell’animo di qualche raffinato collezionista, le opere-libro rimangono tutt’oggi un genere d’arte assolutamente poco frequentato (1). Sono fatte per essere guardate, percepite, ascoltate solo da coloro che per imprevedibili strade si trovino a raggiungerle e nel silenzio si dispongano ad accoglierle tra le mani, dando così inizio ad una relazione di speciale intimità.

Il critico Enrico Crispolti, presentando nel 1980 una delle prime mostre delle edizioni Artein, a cui presero parte anche alcuni dei protagonisti della collana dell’Orolontano, definiva l’opera-libro  “libro a mano”, per distinguerla dal libro d’artista (2)  a tiratura meccanica, e specificava che non si tratta del libro raro e prezioso, in edizione per bibliofili, con testo raffinatamente stampato e illustrato da opere grafiche, incisioni, litografie […]. Non è neppure il libro oggetto, il libro trasformato cioè dall’artista in oggetto, in altro da sé, rispetto a una tipologia propria insomma del libro(3) . E continuava ritenendo che più che essere il libro che diviene opera è l’opera che diviene libro. Che assume cioè […] un darsiI Maghicostruttori di opere-libro per frammenti però risolutivi, uno snodarsi in sequenza, che assume insomma una diversa praticabilità, immediata, trasferibile, che è tipica del libro quale spazio di consultazione anziché quale spazio di ostensione come è invece tipicamente quello dell’opera d’arte visiva, tradizionale o non che sia.

L’opera allora, che si fa, appunto nel libro, è consultabile, riproponibile, immediata e tangibile come una pagina, trasponibile come un ricordo, un diario […]. Dunque l’opera-libro assume una diversa praticabilità. Ci invita con la sua specifica essenza ad un rapporto di vicinanza e complicità:  chiede di sedere nel silenzio, di essere toccata, chiede e offre tempo, costringe a stabilire una relazione diretta, perché non è possibile guardare passando. Possiamo pensarla come un viaggio scandito dal ritmo delle pagine e delle parole, un viaggio da fare seguendo un tempo a noi congeniale, senza mediatori.

La sua struttura, costituita in primo luogo dalle pagine, comporta un darsi per frammenti, però risolutivi, uno snodarsi in sequenza. Il suo darsi per frammenti invita a dilatare il tempo della fruizione. All’interno di questo tempo dilatato, dove il ritmo dell’esistenza conseguentemente rallenta, le piccole cose assumono grande importanza: la dimensione, la forma, la pagina, la carta, la materia, lo spazio delle immagini e lo spazio delle parole, lo spazio senza le immagini e quello senza le parole, le parole come fonemi e le parole come segni. La materia si può, oltre che vedere, toccare: sentire la rugosità, il liscio scorrevole della carta patinata o quello che trattiene della carta cerata; sentire la polvere di colore da non toccare, che invita al rispetto della materia, della sua delicatezza. 

La qualità tattile della materia può rimandare alla qualità tattile delle parole, intrecciandovi sottili legami di senso, oppure risvegliare l’olfatto, perché a tenerla tra le mani, ci accorgiamo che questa materia ha un odore. E questo odore non mancherà di tessere intrecci con la storia evocata dalle parole, seguendo sotterranei percorsi. Tutto insomma pare essere percepito e visto attraverso una speciale lente d’ingrandimento, costituita dalla vicinanza dell’opera e dal dilatarsi del tempo che la sua relazione richiede.

PAROLE E IMMAGINI IN VIAGGIO VERSO L'OROLONTANO

Non abbiamo bisogno di una nave, creatura mia, ma di sfrenata fantasia.   (Fernando Pessoa)

Non c’è una parola che si possa comprendere se si va a fondo.  (Paul Valériy)

Le parole sono come la pellicola superficiale su un’acqua profonda.   (Ludwig Wittgenstein)

I racconti dell’Orolontano nascono in treno, tra Roma e Venezia, dove negli anni Ottanta Alfonso Filieri si recava per insegnare all’Istituto d’Arte. In queste storie, che conservano nel loro stile l’immediatezza e la freschezza degli appunti di viaggio (4) , il mondo leggero delle fiabe, con i loro maghi, draghi e diavoletti, trova eco nella leggerezza dei versi liberi, la cui struttura, aperta ed essenziale, non pare finalizzata ad altro se non a fare circolare l’aria. Le parole, per il contenuto evocato e per il modo in cui si dispongono nella pagina, sembrano scritture di immagini, versi galleggianti nello spazio. Esse hanno la qualità di forme aperte e mobili, quasi abbiano perso il compito di denotare un significato preciso. Ciò è reso possibile sia dal racconto, che da subito dichiara la sua appartenenza a un mondo che non fa riferimento alla dimensione del reale, sia dalla relazione che si stabilisce tra le immagini, la forma e la qualità del foglio. Sono parole che sulla convenzionale pagina bianca di un libro potrebbero morire. Parole e immagini si concedono reciproca libertà, senza necessità di controllarsi a vicenda. La loro alleanza, il loro incontro, sembra dotarle di aumentata potenza e concretizzare l’invisibile del pensiero nel visibile dell’immagine (5).

Tutto questo può avere come unico scopo quello di restituirci il luogo in cui la dimensione a metà tra cielo e terra, che si chiami spirito, sogno, fantasia, possa trovare il suo spazio vitale. Narrando le storie dell’Orolontano Alfonso Filieri si proponeva di scavare proprio là dove è più difficile scavare, alle radici delle cose, alle fonti, dove nascono i pensieri, di cercare di capire quanta distanza esiste tra sogno e realtà, oppure se il sogno e la realtà sono un unico corpo, o dove corre tutto questo sangue a velocità di stella. E cos’è l’oro sulle cose. Se è vero l’oro o il suo riflesso (5bis). E una mattina, seduto sul bordo di un canale veneziano, annotava: Bisogna aprire gli occhi all’alba, essere pronti subito, perché in quell’attimo il sogno e la realtà si toccano e si può percepire allora d’essere su questa terra e contemporaneamente lontano, lontano da essa. L’Orolontano oltre che un luogo potrebbe essere una meta, quella di un viaggio, oppure una dimensione, un’idea, forse un bisogno. Come non pensarlo metafora dell’esperienza artistica,  e pure luogo d’incontro tra l’opera e colui che vi si accosta? Nella fiaba che fa da prologo alla collana l’autore si identifica con l’ “Uccello azzurro”, collocandosi così in quello spazio a metà tra cielo e terra (Nascevo Uccello azzurro nel luogo dell’orolontano).  Qui egli esprime il desiderio di incontrare i suoi simili, coloro che possano comprendere e parlare la sua stessa lingua (e cerco fratelli con ali veloci che sappiano andare in ogni direzione e colpire). L’affermazione rivela il desiderio, realizzatosi di fatto nella collana, di condividere l’esperienza dell’arte: il magnifico magico dialogo che in queste opere prende corpo è il risultato di un rapporto fatto di condivisione, scambio e intimità, e finalizzato a generare la dimensione dell’Orolontano a cui tutti i maghicostruttori contribuiscono. Il senso di solitudine, di autodistruzione, di conflitto sociale, di incomprensione e frattura, proprio di molte esperienze artistiche d’avanguardia, pare qui aver trovato sollievo nell’incontro e l’artista, generatore di voli, vate della leggerezza, sembra aver ritrovato il suo mandato di  guida al viaggio verso il “luogo lontano”.

LA METAFORA ALCHEMICA

Scriveva André Breton nel secondo manifesto del Surrealismo (1929): le ricerche surrealiste presentano, quanto al loro obbiettivo, una notevole analogia con le ricerche alchimistiche: la pietra filosofale è in sostanza ciò che doveva permettere all’immaginazione dell’uomo di prendere una rivalsa sulle cose (6) . L’affermazione chiarisce in maniera efficace il ruolo chiave dell’immaginazione nell’arte come nell’alchimia e il fine comune ad entrambe, ossia consentire all’uomo di prendere una rivalsa sulle cose.  In tal senso l’alchimia, quale “scienza immaginaria”, mette a fuoco procedimenti dell’immaginazione, registrando impulsi ideali e tensioni liberatorie della psiche (7) . Come è noto, la trasformazione alchemica della materia fisica altro non è che il riflesso e la metafora della ricerca di una trasformazione interiore e l’oro, o pietra filosofale, a cui il processo mira, manifesta l’aspirazione alla ricchezza spirituale, alla luce, intesa come sapienza e comprensione, estratta con travaglio dalle tenebre della condizione umana. Lungi dall’intenzione di fare dell’alchimia la chiave di lettura dei numerosi simboli e archetipi presenti nei racconti e dei processi di elaborazione materiale delle opere-libro, sarà sufficiente considerare che, se l’alchimia è “scienza immaginaria”, è proprio l’immaginazione il tema portante della nostra favola e che un parallelismo si insinua tra la ricerca dell’oro e il viaggio verso il luogo dell’Orolontano. Il quale è definito nella stessa favola come luogo di immensa luce, che nel termine “lontano” rende evidente il suo essere meta del metaforico viaggio che i nostri artisti intendono compiere e che ci invitano a compiere. Appare altresì evidente che questo luogo è territorio preferenziale dell’arte e lo è proprio perché l’arte è in grado di rispondere al bisogno dell’uomo di affrancarsi dalle cose, per ritrovare la dimensione dello spirito che sostanzia la sua natura profonda. Logico che tale processo non riguardi solo le parole e la “favola” ma si estenda al procedimento stesso del fare artistico, a cominciare dalla realizzazione della carta sottoposta ad una specie di complessa trasmutazione alchemica, venendo colorata con tinte in dissolvenza, subendo integrazioni cromatiche anche nelle parti stampate, risultando inoltre in certe parti strappata ad arte (8); fino all’uso del colore, impiegato più che per la sua qualità cromatica per quella luminosa, per esaltare la quale gli artisti ricorrono spesso a polveri d’oro e d’argento. Infine, la pratica esecutiva stessa di questi libri, “fatti a mano” in più repliche, contiene nel suo farsi quelle valenze spirituali già riconosciute nell’operare degli antichi amanuensi e ancor più dei pittori d’icone.

Note
(1) La definizione data a questo tipo di opere “piccole mostre portatili” appartiene a Francesco Vincitorio, che la utilizzò in più circostanze cfr.  I. D’Agostino, I primi sedici anni delle edizioni Artein-Orolontano, in A. Filieri, Luoghi e misteri dei libri fatti a mano, Roma 1996, p. 11.(2) Riguardo al libro d’artista nelle sue differenti declinazioni si rimanda a A. Musieri, Artista, libro di, in Manuale enciclopedico della bibliofilia, Milano 1997, pp. 48-49; Il libro d’artista, a cura di Giorgio Maffei, Milano 2003.(3) Il testo è tratto dal dattiloscritto inedito, autografato dal critico Enrico Crispolti, custodito presso l’Archivio Internazionale del Libro d’Artista di Faleria come carta sciolta.(4)A. Filieri, Il viaggio lineare di un vagabondo esemplare Nelio Sonego e accadimenti sull’andare per il mondo di altri viaggiatori eccellenti, Roma 1988.(5) I. D’Agostino, op. cit., p. 10.(5bis) A. Filieri, Il viaggio lineare di un vagabondo esemplare Nelio Sonego e accadimenti sull’andare per il mondo di altri viaggiatori eccellenti, Roma 1988, p.28.(6)La citazione è tratta dal testo di Maurizio Calvesi, Arte e Alchimia, Firenze 1986, p. 5.(7) Ibidem, p. 6(8) Così a proposito Ivana D’Agostino: la carta insomma, sottoposta ad una specie di complessa trasmutazione alchemica, venendo colorata con tinte in dissolvenza, subendo integrazioni cromatiche anche nelle parti stampate, risultando inoltre in certe parti strappata ad arte, ancor di più rinsalda l’idea che il libro d’artista nell’esemplare singolo, ancorché limitato in pochissime copie,rivendichi il diritto, sulla falsariga forse di analoghe differenze riscontrabili tra una copia e l’altra di uno stesso codice medioevale e non ricopiate a mano, di una propria imprescindibile unicità. Cfr. I. D’Agostino, I primi sedici anni delle edizioni Artein-Orolontano, in A. Filieri, Luoghi e misteri dei libri fatti a mano, Roma 1996, pp. 9, 10.(9)Esiste un diario poetico che racconta il contesto che vide nascere le opere-libro descritte, parzialmente pubblicato in A. Filieri, Luoghi e misteri dei libri fatti a mano, Roma 1996,  p. 72 e sgg..

 

testi tratti dai libri

LUOGHI E MISTERI DEI LIBRI FATTI A MANO Alfonso Filieri ed. Ubik Art

e STORIE DI FUOCO Alfonso Filieri, Orolontano-Roma

Polvere e bellezza. giorno nuovo 

Sollecitato da Nelio iniziavo di nuovo a scrivere nell’ora incerta del tardo pomeriggio di un giorno qualunque di un anno nuovo. Tornavo su questa carta ruvida e sincera dei quaderni di riciclata, a navigare su questa zattera di carta che sono le pagine dei libri fatti a mano. Sembrava  tremare sulla memoria di quelle pagine una luce, dimenticata da un dio distratto e fragile, che entrava  scivolando su quelle trame sorprese  un po’ grigie, un  po’ fredde,  un po’ dorate e da qualche riflesso dimenticato dal sole, quasi a voler svelare il senso di insondabili tracce, tra resti di carta cerata, legno, terracotta, smalti a fuoco, carta velo, carta fatta a mano, intorno a sparse tele poste su cavalletti quasi a segnare un passaggio obbligato tra il piano di marmo e il tavolo della cera, tra il piano di legno per la pittura e il tavolo della carta fatta a mano eternamente pieno di colore. Emergevano su tutto e intorno a tutto come piccole improvvise onde,  frammenti di ogni dimensione di resti di carte già lavorate che erano anche preziosi strappi senza perimetri e mai dimenticate storie. Allora spinto da quel tremore di luce che stava, a quell’ora molto vicino alla sua fine, spinto da un segreto invito,  aprivo anche le custodie di quei libri chiuse ormai da qualche anno. 
Divideva polvere e bellezza, un solo apparentemente fragile contenitore di velina monolucida. Dentro le avvolte pagine di quelle edizioni di libri fatti a mano, in quella ora di nessuno e di tutti di quel giorno di riposo o di festa, voci di generose vite iniziavano a raccontare di nuovo storie di questa terra, di ogni tempo e di ogni memoria, delle parole conosciute e sconosciute, dei suoni sussurrati della carta, alle invenzioni dei colori, dei segni, delle forme.
Erano mappe per quella zattera e all’orizzonte  pagine per i giorni a venire,  ancora tanti i luoghi sconosciuti che i luoghi della memoria non hanno fine, nella fortuna o nella malasorte, del facile e faticato andirivieni dello sfogliare tra il liscio e il ruvido della carta, dell’adagiato impasto e modulate velature di carta velo sulle tele o sui legni; echi di pochi suoni che sembrano ripetere che dopo ogni viaggio restano solo pochi colori e poche eterne parole. Quelle che restano. E il nuovo orizzonte che si allontana dopo l’ultima pagina, per le prossime pagine. 
Pagine. Ancora. Di polvere d’ala di farfalla e sussurro di sale di sirena, d’ombre trasparenti sulle cose, grido di carta rauca di giovane falco e forte movimento che tanto vortica più leggero del velo tanto più pesante è l’eco della sua ombra, di volo d’uccello azzurro, di quel re degli uccelli del paradiso degli uccelli re, del tempo in cui aveva ali forti e veloci e compagni votati allo sbaraglio, di labirinti che nascondono e svelano, di resti di luci e riflessi e piccoli specchi d’acqua, di fresco mattino e nervatura di sogno dove la prima luce è un nervo trasparente d’oro rosato, di verde notte e odore di notte verde scuro e scie d’ammaestrate lucciole, fuochi di carne sulle mani, fuochi di sere d’estate, di bellezza  e insonni desideri, dove “l’uccello insonne con ali di bellezza beve la luna e il bianco desiderio scivola, attraversa scheletro, muscoli, pelle. Opere. Ancora. In quella penombra anche geometriche misure erano pagine di generoso dare. Olio di lino cotto su frammenti di legno d’albero maestro, lo schianto di una mortale barca,  piccolo tondo telato diventa l’occhio della paura, sembravano i fuochi del buon auspicio, l’albatro invece contro i legni vibrava ali e cercava bianche radici mentre trovava soltanto il cerchio precipite della malasorte.Frammento luminoso era oro cerato di fuoco, e luminescenti pigmenti di carta metallo su carta telata in ovale orizzontale, dove il bianco vinceva ogni stella, segnava vene sui corpi, lasciava trame di carta e l’ultimo strato di bianco velato profumava di fuoco. Era un ‘immensità di delicate emozioni, altre pagine altre opere, altre ritrovate vie. Avevo già raccontato, per i tempi dell’orologio,  le storie dei luoghi e dei misteri dei libri fatti a mano. Le avevo raccolte per gli artisti, i poeti, erano storie di amicizie. Scritte sulla carta ruvida che rallenta il pensiero, per la fatica delle mani che fa rallentare e riflettere. Ora ricordo  pure la felicità di alcuni amici e la bellezza delle loro parole. Ora c’erano anche storie nuove. Ancora tra il silenzioso sfogliare di ritrovate opere, nuove immagini di rinnovate e antiche idee, Nelio un compagno esemplare di  strada, questa strada dell’Arte, poco conosciuta, camminava e sentivo i suoi passi. Vicini. Faticati come i miei. Faticati per la fatica di essere. Re e prigionieri tra quelle pagine dove sembra durare un eterno errare. In uno di quei tanti giorni dei tanti ultimi traslochi che ogni trasloco sembra sempre l’ultimo come l’orizzonte di Serravalli che sempre si ritira di quanto avanzano i passi, su due quadernoni dal formato anomalo  verticale composti da due gruppi di sette fogli rigati in azzurro, piegati al centro e fissati con ruvidi punti metallici ora leggermente ossidati e da una copertina di cartoncino povero rinforzato su dorso e sugli spigoli con tela blu scuro, ricoperta con patinata non troppo raffinata sulla prime e quarta e dove sono vagamente leggibili confusi labirinti di pietre o movimenti di acque o mappe di foreste blu, verde rossastro, ocra scuro, ocra opaco (presumibilmente opera immaginaria di un disegnatore certamente malinconico), ritrovavo tanti luoghi,  parole, appunti, piccole storie, ricordi un po’ scombinati come il mio andare in quel tempo e illuminati e impolverati frammenti di fine secolo e d’infiniti specchi. Quelle pagine non saranno mai tradotte. Forse sono opera immaginaria. L’arte porta a conoscere luoghi invisibili, anche uomini invisibili, uomini d’ogni luogo e di nessun luogo, ad inventare e dimenticare i nomi delle cose. Una foto tra quelle pagine, l’immagine di Nelio sotto il pergolato e l’occidente in fiamme e quella sagoma si staglia dentro ogni possibile rosso e le note della Passione secondo Matteo erano i cerchi visibili della creatività. Di tanto in tanto ricambiavo le visite di Nelio. Anche se non voglio ricordare il nome, lo chiamavamo “il maestro”, lo incontravamo sempre. A volte in  piazza, a  Sacile, quando dalla casa di Ponte della Muda uscivamo per il solo piacere di uscire. Oppure lo incrociavamo su qualche ponticello sul Livenza, giorno o notte che fosse, sempre sorridente. E sembrava non avesse una meta. Mai. Poteva andare avanti, tornare indietro, venire  con noi a bere una birra in estate, oppure un passito in una serata di primavera, oppure un cioccolato caldo in una notte d’inverno, andarsene da dove era venuto, poteva andare a scrivere un pezzo di musica. Che non abbiamo mai sentito né sentiremo mai.  E lui amico di strada, non vince la morte, oggi s’è voluto perdere, è diventato per tutti noi invisibile. L’arte è anche la fatica di non  perdersi. Nelio fatica. Da anni, e la sua storia è anche la storia di un costruttore di orizzonti. Tra quei piccoli infiniti specchi, questi infiniti  frammenti di orizzonti, tra due fogli di quell’inusitato  quaderno  la fotocopia  di   una  lettera  di  Sveva Lanza,  altra  creatura ora invisibile, che racconta le storie di una divina simulazione dell’arte e la storia di chi ha toccato, come lei, il velo dell’esistenza e della trascendenza.  
Dear Clive, 
finalmente una pausa per poterti scrivere sulla proposta di mostra che ci siamo scambiati per telefono. Ho parlato con Alfonso Filieri e ne è entusiasta quanto me. Si tratta di un viaggio immaginario, fuori dal tempo, poiché sia Alfonso sia io lavoriamo sulla scomposizione di valori mitici (gli eventi mitici sono mutamenti di paesaggio) e magici attraverso volumi, colori ed immagini sfocate-alienazioni spaziali slegate dalla matrice temporale. Alfonso gioca d’azzardo attorno ai quattro filosofici elementi: aria, acqua, fuoco, terra, contrapponendo sui legni o sulle forme di carta manualmente plasmate e modellate (con aria, ed acqua) elementi chimici di metalli oro, argento, rame e ferro (fuoco e terra). I suoi ultimi lavori volano verso l’infinito sulle pareti, svolgimenti di prospettive discontinue ed asimmetriche, quasi non si volessero far prendere, nemmeno dagli occhi altrui. Io vorrei presentare dei tappeti volanti e dei giardini tessili di terra (con fuscelli di legno, rose ed orchidee in cartolina) e di mare (con sassi e conchiglie), dove le immagini sono poste in un contesto diverso ed insolito dalla loro logica destinazione mentre le copertine delle riviste sono intessute, mischiate ed alternate, quindi non più tappe obbligate ma reversibili asimmetrie sospese nel corto circuito dell’intrico geometrico. E’ un giro del mondo in trasparenza dove il mito è un velo che include ed esclude esistenze-trascendenze. “Ulisse e la tela”, come scrive Alfonso Filieri, le grandi mappe dell’azzurro” dove “il sogno del viaggio, la fortuna della luce, il perimetro indiscreto della memoria non si consumano mai essendo dono magico della creazione e divina simulazione dell’arte” ”Roma, 19 maggio 1989.
 
 
Luc. Una piramide di mele verdi
Luc Coekelberghs era un tipo di uccello leggero, fragile, con piccolo scheletro e ali invisibili. Un ragazzo farfalla, un fiammingo cenobita con gli occhi rivolti costantemente al cielo della sua arte e le mani sulla materia.
Era maggio. 1980. Il Minotauro si aggirava in ogni direzione alla ricerca di sempre nuove vittime. Nel labirinto della transavanguardia stavano incespicando uomini donne vecchi e bambini. Non c'era altro da fare che fuggire.
Nacque allora l'idea: un libro fatto a mano stampato su carta pergamena bianca e profumata cera e cotone, contenente disegni originali. In questo libro Dedalo, evocando a misura di fuga l'essenza del volo, la via agli uccelli volle ostruire con trappole di sogno.... progetto di fuga, all'avventura. In questo libro c'era anche Luc.
Anche Luc voleva fuggire da quel labirinto vociante di tristi figure un po' deformi, a volte tanto deformi, troppo rifatte ad arte. Non erano altro che piccoli opachi specchi del passato.
Da buon uccello era amante della pace, del silenzio: era un devoto cultore della bellezza e della calma. In occasione della mostra in cui veniva presentato il libro "Dedalo, o dell'architettura volante" tentava l'impresa di scoprire i segreti del volo. Vagava per la galleria, di giorno, di notte, su e gi? per i tre piani di quello spazio. Lo fece per due giorni e due notti di seguito. Prendeva con passi incerti e occhi sicuri. Preparava con calma il suo piano, il suo progetto.
La terza notte, quando gli altri artisti presenti nel libro e nella mostra avevano gi? sistemato le loro opere e organizzata la propria installazione sui muri e nello spazio della galleria e andavano a godersi il loro giusto e meritato riposo, Luc aveva appena preparato i suoi materiali. Aveva chiesto un piccolo foglio di cartoncino bianco, una matita, un taglierino, due gomitoli di spago bianco, tre acrilici: magenta, ciano,giallo chiaro e qualche mela. Mancava ormai solo la sua opera e chiese di rimanere solo. Disse che potevamo anche chiuderlo dentro la galleria. Aveva tutto quello che gli occorreva.
Era prigioniero nel labirinto, la città come al solito sibilava i suoi lamenti maleodoranti di traffico e transavanguardia: ossido di carbonio e bruciaticcio.
In quel prezioso silenzio, Luc forse si stava avvicinando al regno del volo.
Quella notte Luc sognò che uno stormo di uccelli bianchi si lanciavano in volo, da lui guidati a tessere i suoi gomitoli in alcuni punti del cielo per creare protezione contro i venti contrari e le tempeste dei mari e dei cieli.
La mattina seguente lo trovai addormentato in terra vicino alla sua opera. Aveva formato da una parete all'altra un muro bianco di fili che scendevano dal soffitto dividendo in due la stanza fino al pavimento. Leggere vibrazioni di rosso e di blu e giallo sui fili pazientemente appesi, allienati, dipinti e accostati tra di loro.
Dietro, in basso, al centro, dietro quella parete meticolosamente costruita con gesti verticali, adagiata sul pavimento sostava una piccola architettura volante.
Leggera la forma era aperta verso la fuga.
Quando mi vide, Luc, lentamente, mosse le sue ali, si alz? in piedi, prese il piatto con gli avanzi delle mele che aveva sgranocchiato con evidente perizia e disse nella sua lingua che il suo lavoro era pronto.
Era un dono, per tutti, in cambio di una piramide di mele verdi.
 

EMILIO VILLA. Le mura di Tebe.

Emilio Villa era un visionario e dava l'impressione di essere a conoscenza del mistero e custodire edificanti segreti. Penso ai segreti dell'arte e alla possibilità di vedere, trasformare la materia, inventare la materia; alla possibilità di portare il futuro nelle tasche e saper camminare in un deserto di solitudine. Emilio aveva le sembianze di un mago ma ogni tanto sembrava un uomo. 
Una volta mi raccontò di una città che esisteva e non esisteva. Questa città aveva un cielo pieno di stelle che davano acqua fresca ai cani randagi e assetati quando abbaiavano forte da spaventare anche la notte stessa. Latravano così forte da sembrare lupi e lasciavano sul terreno orme di lupo. Ma dopo avere bevuto l'acqua delle stelle diventavano angeli e portavano strisciando lungo i muri delle case i sogni alle notti degli uomini.
Io non vivo nel presente, non ho nulla da dire oggi, in italiano. Per il tuo libro ti darò un titolo e dieci poesie. Vanno stampate come le vedi. Sono in greco antico e questa è la traduzione. Non deve essere affatto pubblicata. Tienila come un segreto.
Mi consegnava dieci fogli dattiloscritti piegati in due e riposti dentro una busta bianca aperta con sopra scritto "Le mura di Tebe" e altri fogli invece, aperti, svelati, scoperti scritti di suo pugno in greco antico. Sembravano ali confuse fitte fitte di piume tra le sue mani, ali di un uccello splendido che non sa come ritrovare i fili del suo volo. 
Un viaggio sotterraneo per arrivare da Emilio, con Giancarlo Limoni passeggiatore in arte, parlatore di arte e pittore d'arte della pittura. Metropolitana A fino al piazzale Flaminio e trenino della Ferrovia Roma Nord, fermata piazza Euclide. Viaggio sotteraneo, a cielo coperto quasi fin dentro la casa quasi buia del poeta.
Vibrava poca luce nella stanza in cui Emilio Villa ci fece accomodare, ma vi si respirava un'aria pura di visioni luminose sparse qua e là. Nel passato. Nel futuro. A portata di mano. In un angolo, il tebano Tiresia in panciolle, sprofondando in uno scranno, trangugiava un sorbetto di mirtilli con panna, in un altro angolo Limoni era sbiancato in volto da un riflesso ciclopico di un volume, della pregevole biblioteca di Emilio, che teneva in grembo, così che il succo della luce dei suoi occhi scivolava dentro quelle pagine.
Nel libro fatto a mano "Le mura di Tebe", contenente dieci poesie di Emilio Villa stampate in serigrafia su carta paglia, realizzato in ventisette copie contrassegnate con numeri arabi da uno a ventisette, Marisa Busanel è testimone di una visione di un fiume di luce azzurra in un deserto precipitato in un cielo immenso di pietra dove una stelle di acqua e di ombra ricorderà sempre la sua troppo breve solitudine su questa terra e la solitudine di tutti gli artisti.
 

LA PIETRA VOLANTE. Bianco e rosso.

Tra la notte e l'alba di un giorno di aprile del 1981, con Luigi Bonfà e altri amici nottambuli di ventura, sotto una veranda traboccante di fiori nuovi di primavera, con vino arte e poesia, dove nessuno era di questa terra e ognuno era intento a fermare il tempo, tra voli scoperti e voli sottoterra, tra soffi e grida, carezze e sferzate, da quei momenti fino al dardo del primo autobus del mattino conficcato nei nostri discorsi, pensavo alla pietra volante. Ventuno copie color fegato e morte, azzurro oro e mare aperto. 
L'attimo in cui la pietra volava, si coglieva negli occhi dell'eroe e dei suoi marinai, l'ultimo brandello di terrore. Nei loro cuori c'era la forza della vita e la prossimità della morte. Quel sensuale bestione oracolo di morte e mangiatore di uomini gettava l'ultimo possibile tentacolo. Quella sua lingua di pietra, estrema punta, voleva risucchiare l'ultima speranza dei fuggitivi. Rosso e bianco avevano insudiciato i loro capelli, le loro mani, i loro vestiti il sangue dei compagni divorati e il latte sbavato da quella creatura della paura. Nella caverna era la storia del doloroso incavo dell'occhio in fiamme. I viscere o oro, o il nero o la vita, o il vuoto o la storia dell'oro. Nella caverna era la leggenda oscura del potere.
All'esterno, però, la salvezza, mentre la pietra scendeva, a tutti nasceva improvviso, un cuore d'acqua e volavano sguardi più veloci del vento. Ma la forma fortuna era di nuovo aperta, allo sbaraglio: attimo di sospensione quando sulla soglia della perfezione appare la luce e ciò avviene solo in rapido lampo. Allora si può anche sorridere al tempo e al dolce racconto dell'azzurro, di nuovo. Di nuovo la leggerezza scomposta dei fiori d'acqua sempre pronti a nascere e morire contro i venti e disegnare sui legni della nave fuochi e riflessi.
Non ho mai dimenticato i colori e una fuga di Luigi, una volta di tanti anni or sono, quando piombava in verticale dentro un enorme fusto contenitore di calce bianca perchè cedeva la fragile copertura di legno che fungeva da coperchio e perchè fuggitivo e insidiato dalla polizia che aveva circondato l'edificio intero dell'Accademia di Belle Arti. L'avevamo appena occupata. Ci portavano in questura insieme ad altri "in nome del popolo italiano" e sul cellulare cantavamo. Anche Luigi, completamente bianco nei vestiti ma tanto rosso nel cuore.
Nè ho mai dimenticato il male congenito del suo fragile cuore, nè che stavamo ormai vivendo ciascuno la propria vita due fughe diverse.
Lui, con le sue scimmie tra la folla di un autobus di periferia stracolmo, dove impiegati, studenti ed operai, con l'aria assente si preparano a sopportare un'altra giornata di lavoro e quelle scimmie, su quei quadri a olio, passeggere paganti, appese agli appositi sostegni, sembravano gli unici esseri allegri del mattino.
Io con i miei libri, le mie carte fatte a mano, a fuggire gli antipodi dell'epica deformità della trans-avanguardia, monocolo peloso pelle pellicola ripassata più volte, da quella pietra sernz'acqua, da quel corpo senz'anima con quella maniera riproposta alla maniera dei venditori di specchi, da quei lumicini di cocci di bottiglia incollati con le parole.
Nasceva la Pietra Volante perchè bisognava conoscere tutti i luoghi ancora sconosciuti sparsi a raggera da quella notte alla fine della luce e superare gli ostacoli, evitare i pericoli, le mostruosità cieche.
In quel tardo mattino d'aprile, sognavo il sogno dell'arco. Tendevo lentamente l'arco verso le buie meraviglie di quel colore chiamato blu sogno perchè si può solo sognare. Arrivato al momento della tensione massima, lungo la costellazione del capricorno, lasciavo partire il dardo e ogni volta la fortuna era mia, trovavo una stella e il selvatico cacciatore scovava il cuore bianco del chiarore e colpiva e provocava frammenti a raggera che silenziosi si allontanavano. Andavano in quel colore soltanto mio.
 
BASTIE. La luce del faro. 
In una notte lucente di fine giugno Nelio Sonego, sontuoso, silenzioso, esibiva la sua giacca nuova passeggiando per Korut Lenin. Era una giacca indubitabilmente bella. Simil-Cammello puro: ocra chiaro riflesso vellutato. L'aveva ottenuta in prestito da un amico di Ponte della Muda.
Budapest per la settimana della cultura italiana ospitava l'esposizione dei libri fatti a mano delle edizioni artein. Eravamo ospiti della municipalità di Budapest e alloggiavamo presso il Grand Hotel Lenin Korut e ci sentivamo i padroni della citt?. Con Nelio dividevo l'appartamento in quell'albergo che offriva un ottimo servizio.
Tutte le sere, dopo il lavoro presso la J. Galery ci immergevamo dentro la storia della città. Eravamo incantati dalla maestosità del Danubio col suo grigio argento splendente. Placido e gigante il fiume celebrava sogni d'amore e soliloqui musicali vite di santi e di eroi.
L'ampio respiro di tanta acqua era allo stesso tempo mansueto e possente, da ferire la terra in profondità e restituirle luce al suo passaggio e donare ai viaggiatori del cielo tanto spazio per i riflessi dei voli.
L'ultima notte del nostro soggiorno a Budapest pioveva. L'aria era pulita e la pioggia, a tratti non eccessivamente forte, era anche piacevole. Passeggiando nella pioggia, lungo la riva di Buda il fiume padre delle acque, donava maestosa doppia nel suo riflesso, d'incanto, una Bastia, tra gli umidi colori dello spazio. Intorno a questa l'infinito volo degli occhi lasciava capire, sentire questa estensione era lì per noi, per tutti e forse, o sicuramente, impossibile misurare. Nelio aveva un'altro problema: avere quelle parti delle scarpe che posano in terra bucate e la pioggia lo infastidiva un po' perchè la strada era bagnata.
 
 

IL LUNGO VIAGGIO PER LUOGHI SCONOSCIUTI. Colla colori e fuoco.

Quando fu presentato il lungo viaggio per luoghi sconosciuti, Rinaldo Funari, nomade ai quattro venti, veleggiava destinato a fuggire lontano dal soffio miasmatico della trans-avanguardia, deserto di ennesimi miraggi sgrammaticati di pittura figurativa. Rinaldo solida spugna e tempra cosmica di vecchio lupo di mare, aveva costruito nell'arsenale di Via Garibaldi al numero venticinque la sua barca cinque per cinque. Una sala per esposizioni e bevute, un cubo aperto sulla strada dell'arte. Una sera di questo secolo veniva presentato il libro fatto a mano, tredici tappe del viaggio di Ulisse, tredici pagine appese su una parete della galleria, staccate e esposte in sequenza. Salti di memorie, colori e spessori dove ritrovo ancora oggi frammenti di ricordi ogni volta nuovi, pure quelli che si depositano negli angoli ostinatamente più nascosti dell'essere e che ritrovo ogni volta solo sfogliando quei libri fatti a mano, di nuovo. "Il lungo viaggio per luoghi sconosciuti", contiene un testo di Cesare Vivaldi e carte fatte a mano come legacci e brandelli di vele consumate dal sole, lacerate dall'acqua, beccate da uccellacci affamati o esseri ignoti inventati dalla paura o come solide trame di pelle d'animale o come fibre di sacri strumenti o come encausto su ordito di cotone o frammenti di carte da pacchi con colle e colori e fuoco.

La prima pagina, il cavallo e l'orizzonte.

Carta fatta a mano ocra legno, modellata per venature ondulate e rossovena scuro di sangue e vendetta. L'astuzia, a volte è crudeltà come l'ingenuità, che può anche rivelare artisti. Fabrizio aveva cinque anni e occhi di cielo azzurro. Perso l'interesse dopo qualche minuto di attenzione per l'opera concettuale che stavamo installando sulla parete di sinistra della galleria del centro culturale artein, prendeva una scaletta e armato di un grosso chiodo, un piccolo martello e un frammento di plastica a scoppio, attaccava la parete di destra, novello alpinista, ignorato da tutti. Il giorno seguente il critico più perspicace, quello a cui nulla sfugge, stupiva la platea e gelava il mio sangue. Sentenziava con parole da marziano che in fondo l'opera concettuale aveva fatto il suo tempo e che era molto più interessante l'opera che era alle spalle molto più carica di contenuti e problematiche. Sulla parete indicata un complesso monumentale metafisico costituito da un chiodone su plastica e ombre relative inquietanti che tutti gli allestitori artista compreso, avevano dimenticato il giorno prima. Pensavo a Fabrizio astuto costruttore di tranelli ingenuo e imprevedibile, a Ulisse e al viaggio necessario dove a volte l'inganno serviva per dare corso al destino, a scoprire la vera faccia delle cose e i veri nomi delle cose.

La seconda pagina, la tempesta. 

Carta fatta mano di bianco cotone, velato specchio di morte, spuma salata, fibra, colore e colla, sagomata a forma di paura e bianca luce. Dentro la tempesta chiamava la voce di Marco, come Icaro, impaurito e imprudente viaggiatore a filo d'asfalto. Lanciava la sfida alla vita e la sorte che andava urlando la sua crudeltà gli negava la salvezza. Suo padre, il mio amico Paolo, quando mi guardava incredulo della sua stessa esistenza aveva negli occhi una esangue spuma di paura e tempesta e le sue parole disegnavano il nome del figlio ai margini di tutto ciò che ancora significava essere.

La terza pagina, il paese dei Lotofagi. 

Flautata fibra con poca colla, verde frusto filigranato, come strumento di vento e frammento minuscolo arancio, solitario ordito di cotone magenta e giallochiaro fusi. Ultimo ricordo di una improponibile terra di uomini perduti tra le memorie di altri ed era una frotta avida di frutti che donano un languore che sa di morte e andava a passo neoclassico di marcia finale e vagava senza meta come foglie secche che cadono senza pi vita, orda di cavalieri con l'insegna dell'ibrido citazionismo che non conosceranno mai la bellezza dell'idea. 

La quarta pagina, la pietra volante. 

Carta fatta a mano verdelauro rossosangue e bluoro. Posidone, fetore di mare cavalcava il parapetto del marciapiede prospicente la galleria e nascondeva trai capelli un drago verdefurioso, tredici gabbiani a riposo e un ippocampo nano. Nella mano destra tratteneva un grosso occhio sanguinolento e vischioso e con la mano sinistra portava alla bocca gianduie e masticava con gioia di bambino goloso. Stava facendo notte e arrivavano gli albatros di buon augurio. Una stella che girovagava in lontananza accendeva desideri e speranze. In altri luoghi una cima di montagna volava cieca a portare la morte ma si inabissava su se stessa. Rinaldo salito su una ala di albatros aveva scambiato il tridente di quel fesso di Posidone con una confezione di gianduiotti, e con questo, diceva, bucherò gli occhi di chi ci vuole mangiare vivi.

La quinta pagina, l'otre dei viventi.

Carta fatta a mano con trama di cotone colla e colore cieloturchese chiaro, carta compatta bluotre carico di venti encausto su carta fatta a mano con tempera e cera vergine. Preziosa custodia del silenzio. Andavo a volte, quando faceva buio ma persistevano ancora luci e rumori a cercare il silenzio con l'otre sotto il braccio o un giornale fresco di stampa o una bottiglia di liquido dorato verso San Polo delle montagne dove ancora l'aria profuma di silenzio e pace. nel cuore della notte, nel cortiletto del mio studiolo, davanti al silenzio del cimitero costruito sulla collina di fronte, dentro il silenzio della profondità della valle, al di là delle montagne più lontane, se bevevo una goccia di quell'oro, nascevano pure stelle.

La sesta pagina, l'antro della maga Circe. Carta fatta a mano morbida, corposa, blu e verde encausto, fibra di velo e filaccia di blu, nerolupo delle tane nero e nero verdeserpente. La divina figlia di Elio sostava col suo animale al guinzaglio davanti al cubo aperto della galleria di Rinaldo aspettando nuove vittime. L'animale aveva un muso immondo un pò porco un pò ippopotamo con croste di colori sulla coda e culo basso ed era sormontato da cinque sei cavalieri armati di pennelli sgocciolanti illuminati dalla scintillante spada del cermoniere delle arti dell'inganno che volteggiava nudo come un pesce parlante sulle loro teste girate all'indietro per l'eternità.

La settima pagina, le bocche di Bonifacio.

Carta fatta a mano ocrarosso e oro. Alta muraglia mille e più volte le mura di Tebe. Altezza che ai deboli di sguardo appanna il coraggio. L'oro è l'inganno e la fibra è la solidità della pietra che emerge dal mare, cavità profonda che miete vittime. Orfeo il poeta amico delle anime in cerca di strade canta e indica la giusta via tra quelle fessure spaventose perchè apparentemente impenetrabili. Emilio Villa riconosceva sempre gli amici e le loro voci. Compagno generoso di visioni diceva subito che quelle fessure lui le aveva oltrepassate in canotto remando e mangiando miele e uccelli neri del profondo inferno già dai tempi in cui Filolao attizzava i fuochi delle costellazioni.

L'ottava pagina, Scilla e Cariddi. 

Carta di bianco velo filaccia di spuma e violaceo encausto su carta da pacchi riciclata. Quella sera incredibile dall'incerta stagione i secoli rotolavano come onde sulla riva e allora apparve uno straccione ferito a sangue sotto il ginocchio seguito da un vecchio cane più pelle che pelo. Cercavano un definitivo rifugio tra quelle pagine che erano un breve sogno di carta poichè il tempo stava dilaniando le loro povere ossa. L'uomo prometteva sangue e vendetta, la bestia ringhiava debole e morente. Vivrò due volte - diceva l'uomo - una con questo corpo vecchio e malfermo tra le correnti dei mostri, l'altra col segreto dei venti sulle vele e sui mari densi di promesse. Come ombre, poi, scivolano verso i gradini di marmo del tempo barocco a mendicare sogni e realtà.

La nona pagina, l'isola delle sirene. 

Carta fatta a mano con onde sinuose e canti d'azzurro chiaroscuro. Corde d'acqua che implorano d'essere bevute e d'essere intrecciate con le vene riarse della gola e spingono a bere quel suono che attraversa l'essere, tutto. Le sirene hanno il corpo nato da luce di stelle e sale di mare. Anna era una mia allieva e aveva le mani di luce d'argento e il corpo di sale di mare. Lavorava nel mio studio e costruiva spille, cerchi di metallo e storie di stelle. Diceva che ero un fratello ma aveva negli occhi ruote d'acqua e colore bianco. Io le dicevo che ero un mago del volo - un giocoliere ed avevo compagni votati allo sbaraglio e agli scherzi. Nascevo sotto la stella totale della lotta e per credo avevo il gioco del ramarro. La morte non esiste - dicevo -l'arte la voglio dentro la vita in percentuale totale e ancora le raccontavo che lei nasceva con le mani sulle stelle e mescolava ancora luci e riflessi, scherzi e sorrisi.

La decima pagina, l'isola del sole. 

Carta fatta a mano, carta da pacchi, encausto su carta ocrapolvere e orosacro. Isola di armenti dove vibra il segno di una sicura morte e l'unico che deve restare in vita si imbeve dell'amore delle cose sopravvissute alla memoria e all'amore per le cose che sanno di futuro e deve partire sicuramente verso l'ennesima tempesta. Davanti a sette tori grigioneri e terra bruciata solo e senza scorta, spalle alla valle, alla gola polvere ocranebbia e alle orecchie zoccoli battenti, impugnavo il mio bastone da turista coraggioso come il tedoforo pronto a far brillare in volo l'eterno fuoco e dissimulavo invano, nel tentativo di restare immobile, un tremore di gambe che ormai andavano da sole. Forse un tremore più forte mise in fuga quei tori sacri ai montanari di San Polo. Paura e fortuna. Riprendevo il mio cammino lontano da quelle bestie divine. 

L’undicesima pagina, l'isola della ninfa Calipso.

Carta fatta a mano blu verde ocra encausto di fili nodosi di radici e azzurro mare e grigiopianto. La dea disegnava per l'eroe la forma immortale del futuro. Tra giallo cedro dal profumo rovente - oro di canti e sempreverde di mare, rossi frutti, acqua dolce d'argento e uccelli a gioire per la bellezza del volo, l'eroe malinconico cercava, in sogno perpetuo, la partenza da quella spiaggia grigiopianto. Al dono del rosa profumo della vita eterna l'eroe anteponeva il futuro incerto di una zattera fatta con le proprie mani. Buonanotte regina, all'immortale noia del manierismo preferisco i sogni. Parto per il paradiso degli uccelli re, sopra una zattera fatta di carta con aria di cotone, colla colore cera.

La dodicesima pagina, il giardino dei Feaci. Carta fatta a mano verdereame, radici salde e folte, verdi, trasparenti, azzurro presagio encausto biancoverdastro pallido con cera bianca tempera e cotone. Gorgoglio di frutti e rupi di foglie e fiori. Luogo di profezie opera di un re più albero che uomo. Era un vecchio solido, agile sguardo lontano e mani come rami freschi di ulivo. Lavorava solo per lo stupore degli uccelli e preparava alberi iniziatici come l'albero delle pere dai dodici innesti. Spicchi carichi di frutti per la sfera luogo di nidi per tutte le specie. Mio nonno, re delle fragole cercatore d'acqua ed esperto in esplosivi, aveva occhi azzurri ed era costruttore di oracoli.

La tredicesima pagina, Itaca.

Solo encausto. Cera vergine ocra chiaro e scuro e foggia di terra e fibra orizzontale rosso sangue scuro profondo. Arco e lavacro. Dardo e morte. Nella tensione dell'arco vibrava la leggerezza del fuoco finale che scaldava il legno e portava la morte. La leggerezza del fuoco scioglieva la cera che si appiattiva e diventava orizzonte. Come carta che nasce all'aria sotto encausto che profuma di promesse e incertezze, così è la terra che ormai appare vicina e il ritorno ha il sapore di vita nuova desiderata da secoli.