LE STORIE DELL'OROLONTANO
"L' orolontano": Il luogo delle immagini, del segno, della scrittura, Roma,1984.
Sveva Lanza, Il luogo delle immagini e della scrittura, 1984
L'uccello azzurro, il mago costruttor di voli, carta riciclata e pastello, 1985
L'UCCELLO AZZURRO. Carta verdeacqua.
(Alfonso Filieri, da "Luoghi e misteri dei libri fatti a mano" ed. Ubik-Art, Sacile)
La collana dell’Orolontano riunisce tredici “opere-libro” realizzate tra il 1984 e il 1988 da diversi artisti. Tredici opere dotate di identità autonoma e nello stesso tempo unite da un filo sottile quanto resistente: sono i tasselli di un’unica storia, una fiaba, di cui ciascuna delinea un istante e in cui ciascuna ha un proprio ruolo. In questa fiaba si racconta di “maghicostruttori” e si dà figura ai loro domini immaginari: il volo, la luna, il tempo, lo spazio. I maghi sono in viaggio verso un luogo mitico, il luogo dell’Orolontano, nome che corrisponde a quello della collana, generando così un intelligente meccanismo di autoreferenza, secondo cui il luogo lontano viene a coincidere con l’opera-libro stessa, quasi metafora di un viaggio verso se stessi. Il “magoinventore” di storie, ideatore e curatore della collana è Alfonso Filieri, che da anni si prende cura delle centinaia di opere-libro custodite presso l’Archivio Internazionale del Libro d’Artista di Faleria (Viterbo). Gli artisti che hanno affidato il proprio atto creativo alla forma libro, che per alcuni di loro è divenuto medium preferenziale se non unico, sono: Giacomo La Commare, Giovanna Carraro, Ettore Consolazione, Nelio Sonego, Tommaso Cascella, Alfonso Filieri, Sveva Lanza, Bona Cardinali, Fulgor Silvi, Gabriella Trani ed Elisa Montessori. Si tratta di una scelta di particolare valore, in questo più che in altri casi, infatti, la forma dell’opera determina in modo inequivocabile la sua fruizione: difficile fare bella mostra di un’opera-libro nel proprio salotto o esporla in una galleria e quindi introdurla nei tradizionali circuiti del mercato dell’arte. Benché possano funzionare come “piccole mostre portatili” o affascinare e trovare consenso nell’animo di qualche raffinato collezionista, le opere-libro rimangono tutt’oggi un genere d’arte assolutamente poco frequentato (1). Sono fatte per essere guardate, percepite, ascoltate solo da coloro che per imprevedibili strade si trovino a raggiungerle e nel silenzio si dispongano ad accoglierle tra le mani, dando così inizio ad una relazione di speciale intimità.
Il critico Enrico Crispolti, presentando nel 1980 una delle prime mostre delle edizioni Artein, a cui presero parte anche alcuni dei protagonisti della collana dell’Orolontano, definiva l’opera-libro “libro a mano”, per distinguerla dal libro d’artista (2) a tiratura meccanica, e specificava che non si tratta del libro raro e prezioso, in edizione per bibliofili, con testo raffinatamente stampato e illustrato da opere grafiche, incisioni, litografie […]. Non è neppure il libro oggetto, il libro trasformato cioè dall’artista in oggetto, in altro da sé, rispetto a una tipologia propria insomma del libro(3) . E continuava ritenendo che più che essere il libro che diviene opera è l’opera che diviene libro. Che assume cioè […] un darsiI Maghicostruttori di opere-libro per frammenti però risolutivi, uno snodarsi in sequenza, che assume insomma una diversa praticabilità, immediata, trasferibile, che è tipica del libro quale spazio di consultazione anziché quale spazio di ostensione come è invece tipicamente quello dell’opera d’arte visiva, tradizionale o non che sia.
L’opera allora, che si fa, appunto nel libro, è consultabile, riproponibile, immediata e tangibile come una pagina, trasponibile come un ricordo, un diario […]. Dunque l’opera-libro assume una diversa praticabilità. Ci invita con la sua specifica essenza ad un rapporto di vicinanza e complicità: chiede di sedere nel silenzio, di essere toccata, chiede e offre tempo, costringe a stabilire una relazione diretta, perché non è possibile guardare passando. Possiamo pensarla come un viaggio scandito dal ritmo delle pagine e delle parole, un viaggio da fare seguendo un tempo a noi congeniale, senza mediatori.
La sua struttura, costituita in primo luogo dalle pagine, comporta un darsi per frammenti, però risolutivi, uno snodarsi in sequenza. Il suo darsi per frammenti invita a dilatare il tempo della fruizione. All’interno di questo tempo dilatato, dove il ritmo dell’esistenza conseguentemente rallenta, le piccole cose assumono grande importanza: la dimensione, la forma, la pagina, la carta, la materia, lo spazio delle immagini e lo spazio delle parole, lo spazio senza le immagini e quello senza le parole, le parole come fonemi e le parole come segni. La materia si può, oltre che vedere, toccare: sentire la rugosità, il liscio scorrevole della carta patinata o quello che trattiene della carta cerata; sentire la polvere di colore da non toccare, che invita al rispetto della materia, della sua delicatezza.
La qualità tattile della materia può rimandare alla qualità tattile delle parole, intrecciandovi sottili legami di senso, oppure risvegliare l’olfatto, perché a tenerla tra le mani, ci accorgiamo che questa materia ha un odore. E questo odore non mancherà di tessere intrecci con la storia evocata dalle parole, seguendo sotterranei percorsi. Tutto insomma pare essere percepito e visto attraverso una speciale lente d’ingrandimento, costituita dalla vicinanza dell’opera e dal dilatarsi del tempo che la sua relazione richiede.
PAROLE E IMMAGINI IN VIAGGIO VERSO L'OROLONTANO
Non abbiamo bisogno di una nave, creatura mia, ma di sfrenata fantasia. (Fernando Pessoa)
Non c’è una parola che si possa comprendere se si va a fondo. (Paul Valériy)
Le parole sono come la pellicola superficiale su un’acqua profonda. (Ludwig Wittgenstein)
I racconti dell’Orolontano nascono in treno, tra Roma e Venezia, dove negli anni Ottanta Alfonso Filieri si recava per insegnare all’Istituto d’Arte. In queste storie, che conservano nel loro stile l’immediatezza e la freschezza degli appunti di viaggio (4) , il mondo leggero delle fiabe, con i loro maghi, draghi e diavoletti, trova eco nella leggerezza dei versi liberi, la cui struttura, aperta ed essenziale, non pare finalizzata ad altro se non a fare circolare l’aria. Le parole, per il contenuto evocato e per il modo in cui si dispongono nella pagina, sembrano scritture di immagini, versi galleggianti nello spazio. Esse hanno la qualità di forme aperte e mobili, quasi abbiano perso il compito di denotare un significato preciso. Ciò è reso possibile sia dal racconto, che da subito dichiara la sua appartenenza a un mondo che non fa riferimento alla dimensione del reale, sia dalla relazione che si stabilisce tra le immagini, la forma e la qualità del foglio. Sono parole che sulla convenzionale pagina bianca di un libro potrebbero morire. Parole e immagini si concedono reciproca libertà, senza necessità di controllarsi a vicenda. La loro alleanza, il loro incontro, sembra dotarle di aumentata potenza e concretizzare l’invisibile del pensiero nel visibile dell’immagine (5).
Tutto questo può avere come unico scopo quello di restituirci il luogo in cui la dimensione a metà tra cielo e terra, che si chiami spirito, sogno, fantasia, possa trovare il suo spazio vitale. Narrando le storie dell’Orolontano Alfonso Filieri si proponeva di scavare proprio là dove è più difficile scavare, alle radici delle cose, alle fonti, dove nascono i pensieri, di cercare di capire quanta distanza esiste tra sogno e realtà, oppure se il sogno e la realtà sono un unico corpo, o dove corre tutto questo sangue a velocità di stella. E cos’è l’oro sulle cose. Se è vero l’oro o il suo riflesso (5bis). E una mattina, seduto sul bordo di un canale veneziano, annotava: Bisogna aprire gli occhi all’alba, essere pronti subito, perché in quell’attimo il sogno e la realtà si toccano e si può percepire allora d’essere su questa terra e contemporaneamente lontano, lontano da essa. L’Orolontano oltre che un luogo potrebbe essere una meta, quella di un viaggio, oppure una dimensione, un’idea, forse un bisogno. Come non pensarlo metafora dell’esperienza artistica, e pure luogo d’incontro tra l’opera e colui che vi si accosta? Nella fiaba che fa da prologo alla collana l’autore si identifica con l’ “Uccello azzurro”, collocandosi così in quello spazio a metà tra cielo e terra (Nascevo Uccello azzurro nel luogo dell’orolontano). Qui egli esprime il desiderio di incontrare i suoi simili, coloro che possano comprendere e parlare la sua stessa lingua (e cerco fratelli con ali veloci che sappiano andare in ogni direzione e colpire). L’affermazione rivela il desiderio, realizzatosi di fatto nella collana, di condividere l’esperienza dell’arte: il magnifico magico dialogo che in queste opere prende corpo è il risultato di un rapporto fatto di condivisione, scambio e intimità, e finalizzato a generare la dimensione dell’Orolontano a cui tutti i maghicostruttori contribuiscono. Il senso di solitudine, di autodistruzione, di conflitto sociale, di incomprensione e frattura, proprio di molte esperienze artistiche d’avanguardia, pare qui aver trovato sollievo nell’incontro e l’artista, generatore di voli, vate della leggerezza, sembra aver ritrovato il suo mandato di guida al viaggio verso il “luogo lontano”.
LA METAFORA ALCHEMICA
Scriveva André Breton nel secondo manifesto del Surrealismo (1929): le ricerche surrealiste presentano, quanto al loro obbiettivo, una notevole analogia con le ricerche alchimistiche: la pietra filosofale è in sostanza ciò che doveva permettere all’immaginazione dell’uomo di prendere una rivalsa sulle cose (6) . L’affermazione chiarisce in maniera efficace il ruolo chiave dell’immaginazione nell’arte come nell’alchimia e il fine comune ad entrambe, ossia consentire all’uomo di prendere una rivalsa sulle cose. In tal senso l’alchimia, quale “scienza immaginaria”, mette a fuoco procedimenti dell’immaginazione, registrando impulsi ideali e tensioni liberatorie della psiche (7) . Come è noto, la trasformazione alchemica della materia fisica altro non è che il riflesso e la metafora della ricerca di una trasformazione interiore e l’oro, o pietra filosofale, a cui il processo mira, manifesta l’aspirazione alla ricchezza spirituale, alla luce, intesa come sapienza e comprensione, estratta con travaglio dalle tenebre della condizione umana. Lungi dall’intenzione di fare dell’alchimia la chiave di lettura dei numerosi simboli e archetipi presenti nei racconti e dei processi di elaborazione materiale delle opere-libro, sarà sufficiente considerare che, se l’alchimia è “scienza immaginaria”, è proprio l’immaginazione il tema portante della nostra favola e che un parallelismo si insinua tra la ricerca dell’oro e il viaggio verso il luogo dell’Orolontano. Il quale è definito nella stessa favola come luogo di immensa luce, che nel termine “lontano” rende evidente il suo essere meta del metaforico viaggio che i nostri artisti intendono compiere e che ci invitano a compiere. Appare altresì evidente che questo luogo è territorio preferenziale dell’arte e lo è proprio perché l’arte è in grado di rispondere al bisogno dell’uomo di affrancarsi dalle cose, per ritrovare la dimensione dello spirito che sostanzia la sua natura profonda. Logico che tale processo non riguardi solo le parole e la “favola” ma si estenda al procedimento stesso del fare artistico, a cominciare dalla realizzazione della carta sottoposta ad una specie di complessa trasmutazione alchemica, venendo colorata con tinte in dissolvenza, subendo integrazioni cromatiche anche nelle parti stampate, risultando inoltre in certe parti strappata ad arte (8); fino all’uso del colore, impiegato più che per la sua qualità cromatica per quella luminosa, per esaltare la quale gli artisti ricorrono spesso a polveri d’oro e d’argento. Infine, la pratica esecutiva stessa di questi libri, “fatti a mano” in più repliche, contiene nel suo farsi quelle valenze spirituali già riconosciute nell’operare degli antichi amanuensi e ancor più dei pittori d’icone.
testi tratti dai libri
LUOGHI E MISTERI DEI LIBRI FATTI A MANO Alfonso Filieri ed. Ubik Art
e STORIE DI FUOCO Alfonso Filieri, Orolontano-Roma
Polvere e bellezza. giorno nuovo
EMILIO VILLA. Le mura di Tebe.
LA PIETRA VOLANTE. Bianco e rosso.
BASTIE. La luce del faro.
IL LUNGO VIAGGIO PER LUOGHI SCONOSCIUTI. Colla colori e fuoco.
Quando fu presentato il lungo viaggio per luoghi sconosciuti, Rinaldo Funari, nomade ai quattro venti, veleggiava destinato a fuggire lontano dal soffio miasmatico della trans-avanguardia, deserto di ennesimi miraggi sgrammaticati di pittura figurativa. Rinaldo solida spugna e tempra cosmica di vecchio lupo di mare, aveva costruito nell'arsenale di Via Garibaldi al numero venticinque la sua barca cinque per cinque. Una sala per esposizioni e bevute, un cubo aperto sulla strada dell'arte. Una sera di questo secolo veniva presentato il libro fatto a mano, tredici tappe del viaggio di Ulisse, tredici pagine appese su una parete della galleria, staccate e esposte in sequenza. Salti di memorie, colori e spessori dove ritrovo ancora oggi frammenti di ricordi ogni volta nuovi, pure quelli che si depositano negli angoli ostinatamente più nascosti dell'essere e che ritrovo ogni volta solo sfogliando quei libri fatti a mano, di nuovo. "Il lungo viaggio per luoghi sconosciuti", contiene un testo di Cesare Vivaldi e carte fatte a mano come legacci e brandelli di vele consumate dal sole, lacerate dall'acqua, beccate da uccellacci affamati o esseri ignoti inventati dalla paura o come solide trame di pelle d'animale o come fibre di sacri strumenti o come encausto su ordito di cotone o frammenti di carte da pacchi con colle e colori e fuoco.
La prima pagina, il cavallo e l'orizzonte.
Carta fatta a mano ocra legno, modellata per venature ondulate e rossovena scuro di sangue e vendetta. L'astuzia, a volte è crudeltà come l'ingenuità, che può anche rivelare artisti. Fabrizio aveva cinque anni e occhi di cielo azzurro. Perso l'interesse dopo qualche minuto di attenzione per l'opera concettuale che stavamo installando sulla parete di sinistra della galleria del centro culturale artein, prendeva una scaletta e armato di un grosso chiodo, un piccolo martello e un frammento di plastica a scoppio, attaccava la parete di destra, novello alpinista, ignorato da tutti. Il giorno seguente il critico più perspicace, quello a cui nulla sfugge, stupiva la platea e gelava il mio sangue. Sentenziava con parole da marziano che in fondo l'opera concettuale aveva fatto il suo tempo e che era molto più interessante l'opera che era alle spalle molto più carica di contenuti e problematiche. Sulla parete indicata un complesso monumentale metafisico costituito da un chiodone su plastica e ombre relative inquietanti che tutti gli allestitori artista compreso, avevano dimenticato il giorno prima. Pensavo a Fabrizio astuto costruttore di tranelli ingenuo e imprevedibile, a Ulisse e al viaggio necessario dove a volte l'inganno serviva per dare corso al destino, a scoprire la vera faccia delle cose e i veri nomi delle cose.
La seconda pagina, la tempesta.
Carta fatta mano di bianco cotone, velato specchio di morte, spuma salata, fibra, colore e colla, sagomata a forma di paura e bianca luce. Dentro la tempesta chiamava la voce di Marco, come Icaro, impaurito e imprudente viaggiatore a filo d'asfalto. Lanciava la sfida alla vita e la sorte che andava urlando la sua crudeltà gli negava la salvezza. Suo padre, il mio amico Paolo, quando mi guardava incredulo della sua stessa esistenza aveva negli occhi una esangue spuma di paura e tempesta e le sue parole disegnavano il nome del figlio ai margini di tutto ciò che ancora significava essere.
La terza pagina, il paese dei Lotofagi.
Flautata fibra con poca colla, verde frusto filigranato, come strumento di vento e frammento minuscolo arancio, solitario ordito di cotone magenta e giallochiaro fusi. Ultimo ricordo di una improponibile terra di uomini perduti tra le memorie di altri ed era una frotta avida di frutti che donano un languore che sa di morte e andava a passo neoclassico di marcia finale e vagava senza meta come foglie secche che cadono senza pi vita, orda di cavalieri con l'insegna dell'ibrido citazionismo che non conosceranno mai la bellezza dell'idea.
La quarta pagina, la pietra volante.
Carta fatta a mano verdelauro rossosangue e bluoro. Posidone, fetore di mare cavalcava il parapetto del marciapiede prospicente la galleria e nascondeva trai capelli un drago verdefurioso, tredici gabbiani a riposo e un ippocampo nano. Nella mano destra tratteneva un grosso occhio sanguinolento e vischioso e con la mano sinistra portava alla bocca gianduie e masticava con gioia di bambino goloso. Stava facendo notte e arrivavano gli albatros di buon augurio. Una stella che girovagava in lontananza accendeva desideri e speranze. In altri luoghi una cima di montagna volava cieca a portare la morte ma si inabissava su se stessa. Rinaldo salito su una ala di albatros aveva scambiato il tridente di quel fesso di Posidone con una confezione di gianduiotti, e con questo, diceva, bucherò gli occhi di chi ci vuole mangiare vivi.
La quinta pagina, l'otre dei viventi.
Carta fatta a mano con trama di cotone colla e colore cieloturchese chiaro, carta compatta bluotre carico di venti encausto su carta fatta a mano con tempera e cera vergine. Preziosa custodia del silenzio. Andavo a volte, quando faceva buio ma persistevano ancora luci e rumori a cercare il silenzio con l'otre sotto il braccio o un giornale fresco di stampa o una bottiglia di liquido dorato verso San Polo delle montagne dove ancora l'aria profuma di silenzio e pace. nel cuore della notte, nel cortiletto del mio studiolo, davanti al silenzio del cimitero costruito sulla collina di fronte, dentro il silenzio della profondità della valle, al di là delle montagne più lontane, se bevevo una goccia di quell'oro, nascevano pure stelle.
La sesta pagina, l'antro della maga Circe. Carta fatta a mano morbida, corposa, blu e verde encausto, fibra di velo e filaccia di blu, nerolupo delle tane nero e nero verdeserpente. La divina figlia di Elio sostava col suo animale al guinzaglio davanti al cubo aperto della galleria di Rinaldo aspettando nuove vittime. L'animale aveva un muso immondo un pò porco un pò ippopotamo con croste di colori sulla coda e culo basso ed era sormontato da cinque sei cavalieri armati di pennelli sgocciolanti illuminati dalla scintillante spada del cermoniere delle arti dell'inganno che volteggiava nudo come un pesce parlante sulle loro teste girate all'indietro per l'eternità.
La settima pagina, le bocche di Bonifacio.
Carta fatta a mano ocrarosso e oro. Alta muraglia mille e più volte le mura di Tebe. Altezza che ai deboli di sguardo appanna il coraggio. L'oro è l'inganno e la fibra è la solidità della pietra che emerge dal mare, cavità profonda che miete vittime. Orfeo il poeta amico delle anime in cerca di strade canta e indica la giusta via tra quelle fessure spaventose perchè apparentemente impenetrabili. Emilio Villa riconosceva sempre gli amici e le loro voci. Compagno generoso di visioni diceva subito che quelle fessure lui le aveva oltrepassate in canotto remando e mangiando miele e uccelli neri del profondo inferno già dai tempi in cui Filolao attizzava i fuochi delle costellazioni.
L'ottava pagina, Scilla e Cariddi.
Carta di bianco velo filaccia di spuma e violaceo encausto su carta da pacchi riciclata. Quella sera incredibile dall'incerta stagione i secoli rotolavano come onde sulla riva e allora apparve uno straccione ferito a sangue sotto il ginocchio seguito da un vecchio cane più pelle che pelo. Cercavano un definitivo rifugio tra quelle pagine che erano un breve sogno di carta poichè il tempo stava dilaniando le loro povere ossa. L'uomo prometteva sangue e vendetta, la bestia ringhiava debole e morente. Vivrò due volte - diceva l'uomo - una con questo corpo vecchio e malfermo tra le correnti dei mostri, l'altra col segreto dei venti sulle vele e sui mari densi di promesse. Come ombre, poi, scivolano verso i gradini di marmo del tempo barocco a mendicare sogni e realtà.
La nona pagina, l'isola delle sirene.
Carta fatta a mano con onde sinuose e canti d'azzurro chiaroscuro. Corde d'acqua che implorano d'essere bevute e d'essere intrecciate con le vene riarse della gola e spingono a bere quel suono che attraversa l'essere, tutto. Le sirene hanno il corpo nato da luce di stelle e sale di mare. Anna era una mia allieva e aveva le mani di luce d'argento e il corpo di sale di mare. Lavorava nel mio studio e costruiva spille, cerchi di metallo e storie di stelle. Diceva che ero un fratello ma aveva negli occhi ruote d'acqua e colore bianco. Io le dicevo che ero un mago del volo - un giocoliere ed avevo compagni votati allo sbaraglio e agli scherzi. Nascevo sotto la stella totale della lotta e per credo avevo il gioco del ramarro. La morte non esiste - dicevo -l'arte la voglio dentro la vita in percentuale totale e ancora le raccontavo che lei nasceva con le mani sulle stelle e mescolava ancora luci e riflessi, scherzi e sorrisi.
La decima pagina, l'isola del sole.
Carta fatta a mano, carta da pacchi, encausto su carta ocrapolvere e orosacro. Isola di armenti dove vibra il segno di una sicura morte e l'unico che deve restare in vita si imbeve dell'amore delle cose sopravvissute alla memoria e all'amore per le cose che sanno di futuro e deve partire sicuramente verso l'ennesima tempesta. Davanti a sette tori grigioneri e terra bruciata solo e senza scorta, spalle alla valle, alla gola polvere ocranebbia e alle orecchie zoccoli battenti, impugnavo il mio bastone da turista coraggioso come il tedoforo pronto a far brillare in volo l'eterno fuoco e dissimulavo invano, nel tentativo di restare immobile, un tremore di gambe che ormai andavano da sole. Forse un tremore più forte mise in fuga quei tori sacri ai montanari di San Polo. Paura e fortuna. Riprendevo il mio cammino lontano da quelle bestie divine.
L’undicesima pagina, l'isola della ninfa Calipso.
Carta fatta a mano blu verde ocra encausto di fili nodosi di radici e azzurro mare e grigiopianto. La dea disegnava per l'eroe la forma immortale del futuro. Tra giallo cedro dal profumo rovente - oro di canti e sempreverde di mare, rossi frutti, acqua dolce d'argento e uccelli a gioire per la bellezza del volo, l'eroe malinconico cercava, in sogno perpetuo, la partenza da quella spiaggia grigiopianto. Al dono del rosa profumo della vita eterna l'eroe anteponeva il futuro incerto di una zattera fatta con le proprie mani. Buonanotte regina, all'immortale noia del manierismo preferisco i sogni. Parto per il paradiso degli uccelli re, sopra una zattera fatta di carta con aria di cotone, colla colore cera.
La dodicesima pagina, il giardino dei Feaci. Carta fatta a mano verdereame, radici salde e folte, verdi, trasparenti, azzurro presagio encausto biancoverdastro pallido con cera bianca tempera e cotone. Gorgoglio di frutti e rupi di foglie e fiori. Luogo di profezie opera di un re più albero che uomo. Era un vecchio solido, agile sguardo lontano e mani come rami freschi di ulivo. Lavorava solo per lo stupore degli uccelli e preparava alberi iniziatici come l'albero delle pere dai dodici innesti. Spicchi carichi di frutti per la sfera luogo di nidi per tutte le specie. Mio nonno, re delle fragole cercatore d'acqua ed esperto in esplosivi, aveva occhi azzurri ed era costruttore di oracoli.
La tredicesima pagina, Itaca.
Solo encausto. Cera vergine ocra chiaro e scuro e foggia di terra e fibra orizzontale rosso sangue scuro profondo. Arco e lavacro. Dardo e morte. Nella tensione dell'arco vibrava la leggerezza del fuoco finale che scaldava il legno e portava la morte. La leggerezza del fuoco scioglieva la cera che si appiattiva e diventava orizzonte. Come carta che nasce all'aria sotto encausto che profuma di promesse e incertezze, così è la terra che ormai appare vicina e il ritorno ha il sapore di vita nuova desiderata da secoli.
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